Audemars Piguet: visita a Le Brassus

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Con la dirigenza italiana della Audemars Piguet e l’Orologeria Luigi Verga di Milano, ho potuto visitare la sede principale della famosa manifattura svizzera. Esperienza a dir poco affascinante, vista la storia, la tecnica e la competenza che “trasuda” sul posto. La Maison svizzera nasce nel 1875 a Le Brassus grazie a due giovani orologiai della zona, Jules-Louis Audemars  e Edward-Auguste Piguet. E da allora è rimasta sia radicata nella Valle dello Giura, sia di proprietà delle due famiglie fondatrici.

In 3 intrepidi ci siamo ritrovati in Via Mazzini a Milano, dove ci aspettavano con una fiammante Range Rover Vogue, gentilmente messaci a disposizione dalla Casa Automobilistica, Umberto Verga e il suo Direttore Generale. Il viaggio, vuoi per la comodità del mezzo, vuoi per  la simpatia del gruppo, è durato un nulla, nonostante le asperità climatiche (la Vallèe de Joux d’inverno rimane quasi isolata a causa delle forti nevicate).

Giunti a destinazione, ad accoglierci c’erano Franco Ziviani (Amministratore delegato di Audemars Italia), Andrea Cardillo (direttore commerciale) e François-Henry Bennahmias (CEO Audemars Piguet), coi quali abbiamo cenato e ascoltato piacevoli aneddoti sulla loro maison. Uno, in particolare, mi sento di condividerlo con voi: François-Henry Bennahmias ci ha svelato la vera storia della genesi del Royal Oak. Nel 1970 a Gerald Genta (uno dei più grandi designer di orologi di tutti i tempi: basti pensare al Royal Oak appunto, al Nautilus di Patek Philippe, all’Ingenieur di IWC, al Pasha di Cartier per citare i più famosi) la casa svizzera, con la quale già collaborava, e il distributore italiano Carlo De Marchi, gli commissionano (in particolare per il mercato italiano) un orologio sportivo d’acciaio, allora una scommessa decisamente audace… E Genta, dopo notti passate a farsi venire un’idea, si ricordò infine di quando da bambino osservava i palombari che indossavano lo scafandro col classico oblò a forma ottagonale fissato da un giunto di caucciù e 8 bulloni. Tradurre questo ricordo nel disegno di una nuova cassa all’avanguardia, aggiungendovi un vetro zaffiro piatto e un bracciale integrato con maglie di acciaio decrescenti fu un attimo (per lui…). Ben più difficile fu riuscire a  fabbricarlo: ci volle un anno e finalmente venne presentato tra mille incertezze alla Fiera di Basilea del 1972, arrivando però al successo solo dopo qualche anno. Ma la storia del Royal Oak merita un approfondimento a parte, che nelle prossime settimane sarà mia cura offrirvi.

Tornando al nostro viaggio, il mattino dopo di buon ora abbiamo potuto visitare il loro Museo: esperienza affascinante! E’ stato come tornare indietro nel tempo, perdendosi tra orologi, movimenti e complicazioni incredibili. Due su tutti: l’orologio da tasca Lépine a marchio Audemars Piguet del 1882 (calendario perpetuo e ripetizione quarti tra le varie complicazioni presenti) e il Quantième Perpétuel del 1978, il calendario perpetuo automatico più piatto del mondo, derivato dal movimento meccanico a carica automatica 2120 che tutt’ora resta il più piatto del mondo della sua categoria (soli 2,45mm!). Anche se un fascino tutto suo hanno il Laboratorio di restauro (vi allego qualche foto che più di tante parole può far capire cosa sia) e la Sala delle Suonerie: è forse questa, tra le varie complicazioni, quella che da sempre contraddistingue maggiormente Audemars Piguet. Nota di servizio per gli amici lettori: il Museo è visitabile su richiesta.

Nel pomeriggio è stata la volta della nuova manifattura, terminata nel 2008 rispettando le norme ecologiche svizzere particolarmente severe. Ciò che mi ha colpito sono gli spazi particolarmente luminosi: gli orologiai, infatti, hanno bisogno di luce, meglio se naturale. Motivo per il quale sono state predisposte grandi vetrate da 80 cm dal suolo. Al suo interno vengono prodotti buona parte dei circa 27mila orologi fabbricati ogni anno (Audemars ha una sede anche a Le Locle e una a Meyrin). Le serie più comuni raramente superano i mille pezzi e non sono rari i pezzi unici o le tirature limitate a qualche decina di pezzi.

Non mi soffermo, per timore di trasformare un articolo in un libro, sulla maestria degli artigiani incontrati nella fabbrica (alcune viti utilizzate nelle complicazioni non superano il terzo di millimetro!). Vi dico solo che a malincuore io e i miei compagni di viaggio abbiamo preso la via del ritorno, fiduciosi però di poter ripetere quanto prima una simile esperienza!